Stuart Paton è un fotografo nato e cresciuto in Scozia che ad oggi vive a Milano.
In questa intervista, tra le altre cose, parla della sua idea di fotografia, di alcuni dei suoi progetti fotografici, e di come ha affrontato fotograficamente la pandemia…buona lettura.
Hai spiegato che “la fotografia è il mio modo di battere i miei demoni e ricreare l’incantesimo del mio mondo”. Ricordi la prima volta che ti sei reso conto di questo? Qual’è l’immagine, sempre che ce ne sia una, che ricordi come la tua prima “vera” fotografia?
Me ne sono reso conto in un assolato pomeriggio del 2016. La mia vita andava a rotoli e stavo seduto in silenzio, circondato da scatoloni e con la sola compagnia del mio gatto. Avevo pianto ogni possibile lacrima per il mio senso di perdita ed abbandono. La mia mente sa essere il mio peggior nemico, quindi ho avuto la necessità di tenermi occupato con qualcosa che fosse vitale. O così, o sarei stato divorato. Ho incanalato tutto il mio dolore in quelle immagini che speravo rappresentassero quell’urlo interiore che avevo dentro…una sorta di esorcizzazione fatta di street ju-ju e gelati italiani.
Sin dai tempi del primo rullino Tri-X ho sempre pensato che la mia fotografia fosse una combinazione di speranza e disperazione, perché vivevo quest’arte come il mio biglietto per qualcosa di più emozionante che il tipico lavoro da ufficio. Quando ho finito la scuola in Scozia ho iniziato a lavorare al porto, ma il mio cuore era sempre da un’altra parte. A un certo punto mi sono finalmente rotto di stare lì a coglionare i miei superiori e mi sono così imbarcato in un lungo viaggio on the road per gli Stati Uniti, come fosse un rito d’iniziazione per una vita più autonoma e particolare. Come ha scritto qualcuno a riguardo della rivolta di Hong Kong ora in atto, “l’incantamento è un’arma potente”.
È difficile essere precisi su qualcosa di così vago e soggettivo come il termine “vera”. Forse lo scatto un po’ granuloso dei tre tizi seduti su degli scalini di Harlem mentre suonano la tromba? O la foto di quei tre ragazzini di strada mentre giocano in un angolo dell’Inghilterra settentrionale? Magari sennò un’immagine un po’ più “demoniaca” del 2016?
Nella tua bio citi Hobbes: “L’inferno è la verità appresa troppo tardi”. Cosa rappresenta per te questa frase e cosa ci dice della tua idea di fotografia?
Proprio come nella mia fotografia, il personale è sovraimposto al sociale. O viceversa. Questa frase potrebbe riferirsi alle cose che ho scazzato, e che rimpiango, della mia vita. O magari un punto di vista su dove si dirige la civiltà. Mi ricordo ancora quando cinque anni fa, ad un barbecue, tutti dicevano che il cambiamento climatico era un gran casino per nulla. Poi, acceleriamo al 2019, ed ecco che quell’idea suona molto stupida.
Questo secolo sarà fondamentale. Cambridge Analytica è stato solo un assaggio di quello che verrà in un’era segnata da un capitalismo spietato nel quale i dati saranno il nuovo oro e saremo noi ad essere hackerati perché siamo diventati un prodotto. Le bio-tecnologie e l’intelligenza artificiale condizioneranno la politica del corpo: il concetto di individualità si perderà, acuendo il nostro senso di alienazione e i cambiamenti demografici metteranno alla prova la struttura della società. Già uno solo di questi problemi sarebbe un test molto duro per la tenuta di una comunità…ma tutti insieme sarebbero probabilmente troppo per qualsiasi collettività, e soprattutto per una che vede nello shopping una forma di intrattenimento. Questo, cari amici, è lo sfondo ampio e distopico della mia fotografia.
Jeff Mermelstein ci prende in pieno quando dice “I migliori e più rimarchevoli fotografi street sono quelli che offrono una visione chiara del mondo da un prospettiva personale”. Questa è la mia.
Hai detto che, per un certo periodo di tempo, avevi pensato di diventare un fotografo di guerra. Cosa ti ha fatto cambiare idea?
Il pensiero dei boati.
Come fonte di ispirazione fai spesso il nome di Don McCullin. Quali sono gli elementi della sua fotografia che più ti hanno segnato? Dove li ritroviamo nella tua fotografia?
Il suo saper documentare la giornata. Il suo difendere gli ultimi. Il nero inchiostro con cui dipinge i danni collaterali del neo capitalismo. A mio dire, i suoi lavori migliori sono quelli in Inghilterra piuttosto che quelli oltremare. La fotografia di McCullin aveva una particolare vitalità, nasceva da un’urgenza. Era innanzitutto per se stesso che doveva scattare quelle immagini…che,infatti, portano una speciale intensità emotiva. Per quanto il mio stile sia cambiato da allora, è certamente a quella eredità che mi rifaccio. C’è stato un generale distacco dalle tematiche sociali nel corso degli anni. La maggior parte della street photography ad oggi sembra farsi una medaglia della totale assenza di qualcosa di “serio” nella sua stramba “gagografia”. La streetphotography potrebbe invece avere un impatto piccolo ma significativo, se solo più persone si facessero giustizia.
“Hoi Polloi” è una serie in bianco e nero sulle strade del Regno Unito. Qual’è il tema e da dove è venuta l’idea?
La fotografia è più una conversazione che un monologo, quindi potrei chiedere io a te, Paolo, quale sia il tema. Questa serie, in verità, rappresenta il mio trovare la mia dimensione all’interno della fotografia -con McCullin che mi incita da bordocampo. I luoghi della serie coincidono con i miei ideali politici…devo dire che mi è venuto tutto fuori con molta naturalità.
“Haven” parla di immigrazione. Cosa hai scoperto su questo tema, lavorandovi fotograficamente? Cosa vuole comunicare questa serie?
“Haven” è la storia di un gruppo di dodici rifugiati pachistani trasferiti di recente in un piccolo paese di montagna italiano. Ho avuto un accesso privilegiato alle loro vite mentre si chiacchierava mangiando un piatto di curry o facendo una partita a carte. Le ragioni della loro partenza e del dover lasciare tutto e tutti. Le loro speranze per il futuro. La traversata in mare. La loro visione del mondo e la spensieratezza nonostante tutto.
Questa serie non contiene un messaggio in particolare. Tutto nasce dal fatto che io apprezzo il loro spirito e mi sono quindi sentito chiamato a documentare un capitolo delle loro vite e il contesto nel quale si ritrovano. Un bravo psicologo probabilmente potrebbe trovare la mia motivazione in quel pomeriggio del 2016 di cui ho parlato all’inizio…Comunque, ora abbiamo, loro ed io, voltato pagina: si sono spostati dal porto (“Haven” ndt) e adesso vivono una vita migliore giù al lago. Mi mancano. E mi mancano i pasti al curry e le partite a carte
Proponi anche dei workshop. Quali sono le domande che ti fanno più spesso? E le più interessanti? Quale consiglio dai più spesso?
Le domande, il più delle volte, riguardano la “visione”…sono perlopiù curiosità riguardo al mio modo di vedere il mondo. Non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico, ma per qualche motivo sono ben felici di pagare per questo tipo di piacere!
La gran parte delle loro domande sono interessanti, per un motivo o un altro. Sono stato molto fortunato perché fino ad oggi sono state tutte persone fantastiche con il quale sono ancora in contatto. Ritengo che il consiglio per una buona fotografia coincida con quello che si direbbe ad una figlia o un figlio che chiede “Qual’è il segreto per una vita autentica e appagante?”
Un artista in vita che ci vuoi consigliare? Perché?
Vasily Lomachenko. Il miglior pugile al mondo, al netto delle categorie di peso, ed un vero artista. La classe, l’originalità e la risolutezza di quest’uomo mi intrigano. Prima che gli permettessero di fare pugilato, il padre gli fece passare anni ad imparare a danzare e fare ginnastica. Il suo allenamento, così completo, enfatizza l’agilità mentale e la destrezza. Fuori dal ring poi, è un galantuomo che non si perde in chiacchiere da macho, ma non appena suona la campana si trasforma in uomo in missione. È un fottuto mago. Cerco ispirazione senza alcun pregiudizio e la travaso nel mio spirito in modo subliminale.
Da una parte la pandemia mi ha condizionato, come tutti, con le sue precauzioni sanitarie, le restrizioni dovute al lockdown e nel modo in cui ha trasformato le strade.
Dall’altra mi ha fatto una proposta che non potevo rifiutare (proprio come disse una volta Marlon Brando). Molto semplicemente, dovevo scattare foto di un evento storico e di portata globale come questa pandemia. Non c’è mai stata alternativa dal mio punto di vista. Dunque, anche se ci sono delle ottime ragioni per non farlo, sento che ci sono dei motivi molto forti per affrontare il Coronavirus con una macchina fotografica.
Possiamo considerare la pandemia come una cartina al tornasole per la street photography. Ha messo in luce la separazione in questo settore tra chi interagisce, in qualche forma, con il mondo reale e chi invece cerca rifugio nel loop di un facile e confortante feedback positivo. Sono questi ultimi che vivono la pandemia come un intoppo alla loro routine fondata su una stramba febbre di condivisione. Sono gli stessi che si dicono irritati dall’ aspetto estetico delle mascherine e che sono rimasti rinchiusi in casa a spulciare i loro “archivi”. Questa gente, secondo me, è il sintomo di un problema più grande che riguarda il disimpegno civile in questa cultura fondata su una forma di eccitamento puerile e sterile per le cose.
Per me è diverso. Quindi, per rispondere alla tua domanda, ho cercato di documentare la situazione a Milano durante la pandemia. Per farlo però, invece di utilizzare i soliti simboli come le mascherine, gli ospedali e le bare, ho cercato di evocare la condizione psicologica in cui questo virus ci ha portato. È proprio questo l’aspetto chiave dell’esperienza di noi tutti. Il risultato è una sorta di viaggio emozionale che precipita lungo un vortice oscuro in quello che certamente non è un lieto fine. Non è un capolavoro, ma mi ha aiutato senza dubbio in questi mesi difficili attraverso una piccola forma di resistenza.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
La distopia socio-psicologica di partenza si è fusa senza soluzione di continuità con la pandemia. A proposito di pandemia, sto collaborando ad una pubblicazione sul Coronavirus che dovrebbe uscire tra non molto.
A parte queste cose, mi sento di aver preso quello che potevo da Milano…penso farò un cambio di marcia nel prossimo futuro.
Credits: Stuart Paton
Ecco alcuni contatti per seguire tutti i lavori di Stuart Paton:
Website: https://stuartpatonphoto.wixsite.com/stuartpatonphoto
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