Giacomo Carlini è un giovane fotografo italiano che si è avvicinato alla fotografia attraverso varie esperienze di cooperazione internazionale. Il suo lavoro mira a “catturare in silenzio e con rispetto, la delicatezza degli sguardi delle popolazioni che incontra, cercando di portare indietro un po’ di quella magia e di quelle atmosfere”. In questa intervista, oltre a raccontare il suo percorso e parlare dei suoi progetti, consiglia come proporsi al meglio alle ONG e racconta i suoi progetti futuri.
Hai scoperto la tua passione per la fotografia lavorando per una ONG in Africa e Nepal. Come è nata la necessità di fotografare e quali sono stati i primi scatti?
Ho iniziato a scattare in Mozambico, quando lavoravo per una ONG di Genova, città dove ho studiato. La cosa è nata un po’ per caso: con i primi soldi guadagnati dai lavori per questa ONG, ho comprato un modello base di Nikon e mi sono iscritto ad un corso. Quando è stata ora di partire per il Mozambico, mi è stato chiesto di tenere un diario del mio viaggio e di aiutare con la documentazione dei progetti. Passare quei mesi a scrivere e fotografare mi ha completamente stregato. Documentare la vita delle persone che incontravo, vedere la reazione di chi ascoltava le storie in Italia…tutto questo mi ha fatto comprendere quanto la comunicazione fosse importante per me.
Hai raccontato due regioni molto diverse tra loro dell’India. Una, che definisci un “tuffo in quel mondo islamico antico e affascinante che Marco Polo per primo conobbe nei suoi viaggi verso la Cina” e l’altra, nota come piccolo Tibet. Come hai scelto questo percorso? Hai notato un diverso rapporto dei locali con la fotografia?
Per quanto riguarda l’India, dopo essere stato in Nepal sempre per lavoro, volevo viaggiare un po’ in Asia, per arricchire il mio bagaglio di esperienze. Se rispetto ai popoli africani gli asiatici sono più calmi, non sento di aver trovato differenze per quanto riguarda disponibilità e gentilezza: fuori dall’Europa occidentale ho sempre trovato una grandissima disponibilità delle persone quando si tratta di farsi fotografare. In Europa con i social network si è sviluppata una sorta di paura dell’immagine, mentre tante persone nel mondo sono semplicemente felici che una persona che viene da lontano le voglia fotografare.
Come ti sei ritrovato a Yamul, in Siberia? Cosa ti ha lasciato questo viaggio? Com’è stato lavorare lì?
L’esperienza della Siberia è stata una delle più forti. Sono partito con un gruppo di altri appassionati, ci siamo appoggiati ad una guida russa che si è occupata della logistica degli spostamenti e del pernottamento: ci spostavamo con un mezzo a sei ruote alte quasi due metri, un mezzo militare fondamentale per spostarsi e per proteggersi dalle tempeste, che non solo rendono impossibile muoversi a piedi, ma anche vedere a più di tre metri dal proprio naso. Dormivamo nelle tende dei nomadi del posto, i Nenet, pastori di renne nomadi estremamente accoglienti, che appunto vivono nei “chum”, tende fatte di pelle di renne simili a quelle che si vedono nei film sui nativi americani. Dentro le tende si accende il fuoco e si sta bene anche quando fuori si abbatte la tormenta con i suoi 30 gradi sotto lo zero.
Lavorare per una ONG è un ottimo modo per entrare in contatto con realtà specifiche. Hai qualche consiglio da dare a chi vuole proporsi come fotografo?
Seppur io mi senta ancora molto all’inizio in questo lavoro, penso di poter consigliare di contattare le ONG per vivere meravigliose esperienze umane prima che fotografiche. L’ambiente delle ONG è innanzitutto aperto e disponibile, quindi è facile trovare programmi di volontariato che permettano di sfruttare le strutture logistiche in loco di queste organizzazioni per incontrare popoli e visitare luoghi altrimenti inaccessibili al turismo. Inoltre, le ONG saranno ben felici di avere in cambio fotografie che documentino i loro progetti in giro per il mondo.
Molta della tua fotografia è “di viaggio”. Che tipo di fotografo sei quando sei a casa? Hai già realizzato, o hai in mente, progetti più vicini?
In Italia non produco molto. Ho in mente qualche progetto più “europeo” ma poi la tentazione di andare più lontano prevale sempre e alla fine queste idee rimangono nella fase embrionale, per ora.
C’è qualche immagine a cui sei particolarmente legato? Perché?
Una delle immagini a cui sono più legato è quella della bambina di Kargil. Ritrae una studentessa di una scuola coranica che guarda fuori dalla finestra: le mura verdi in contrasto col suo vestito, la meravigliosa luce caravaggesca che entra dalla finestra, è stato uno di quei colpi di fortuna rari, che sapevo già mentre lo vivevo che sarebbe diventata una grande foto. Infatti fece strada all’ultimo concorso del National Geographic, peccato che poi a vincere fu un’altra, altrettanto bella. Ma oltre all’aspetto fotografico, amai vivere quel momento perché entrai per caso in quella classe mentre visitavo la scuola, e quella bambina era da sola a fare i compiti, e quasi mi ignorava, distratta com’era dal rumore dei suoi compagni fuori che giocavano. Fu speciale.
Come stai impiegando il tempo in questo lockdown? Pensi ad un progetto sul tema?
Per quanto riguarda il lockdown, non penso di farne un progetto. Non mi sento un fotografo introspettivo, preferisco raccontare il mondo fuori, e forse sto soffrendo questo periodo così tanto che neppure vorrei ricordarlo. Cerco di resistere fino a quando potrò ripartire e ricominciare a raccontare la bellezza del mondo e dell’uomo.
Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo della fotografia?
Penso di essermi innamorato della fotografia grazie a Steve McCurry. Lo so, risposta banale, ma è stato il primo che mi ha sbalordito per estetica, sguardi, e colori. Sembra di sentire l’odore di quei posti quando si guardano le sue immagini.
Ci sono riviste/giornali che segui particolarmente?
Seguo molte riviste, sia le classiche di viaggio come National Geographic, sia riviste di moda: la fotografia di moda è un bellissimo mondo di sperimentazione fotografica, ed è sempre un passo avanti su gusti e tendenze che poi arriveranno anche agli altri settori.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Quando potrò viaggiare di nuovo, vorrei continuare il progetto che ho iniziato nel 2019 in Mozambico, quando sono tornato in questo meraviglioso paese dopo la mia prima esperienza. Sto documentando il rapporto tra i veterani della guerra civile mozambicana e gli antichi curatori della medicina tradizionale africana. Il rapporto tra superstizione, traumi, violenza e storia in quel paese è molto affascinante e soprattutto molto vivo, e vorrei raccontarlo a mio modo.
Grazie per il tuo tempo. Vuoi aggiungere altro?
Se posso aggiungere una cosa, tutte le foto presenti in Instagram e sul mio sito sono in vendita per stampe in fine art, stampe eseguite da uno dei migliori stampatori di Milano, per chi fosse interessato!
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